IL PETROLIO CHE ALIMENTA LA GUERRA

La crisi russo-ucraina, oltre a essere “umanitaria” a 360° – perché attraversa i destini delle persone nella loro totalità, perché spezza vite, le costringe alla fuga, le “separa” dai luoghi di origine che diventano terra bruciata – è anche una crisi economica e geopolitica. Da un lato c’è la Russia, il paese aggressore, che continua ad aumentare le esportazioni di petrolio, nonostante l’isolamento nei mercati energetici mondiali; dall’altro c’è il continente europeo che, con diverse gradazioni su scala nazionale – e una serie complessa di distinguo in sede politica dettata da ragioni “interne” di sussistenza energetica – è ostaggio della dipendenza da materie prime, di cui non può fare a meno, pur sapendo che la “fonte” del proprio approvvigionamento è, sia un governo accusato di crimini di guerra (la Russia), sia un paese (l’Ucraina) messo alle strette dall’invasione decisa da Putin e, dunque, impossibilitato a garantire la stabilità interna e la domanda dall’esterno.

Alcuni paesi come Regno Unito, Canada, Stati Uniti e Australia, hanno ufficialmente proibito le importazioni di petrolio dalla Russia. Sul fronte europeo, invece, di discute di nuove e più rigide misure restrittive contro la Russia, ma il dibattito resta in bilico tra il desidero di isolare Putin e quello di non mettere a forte repentaglio l’economia dei pesi che fanno parte dell’Unione europea. Ci si è chiesto, pertanto, se c’è una modalità per aggirare le conseguenze derivanti da un possibile embargo totale. Gli esperti dicono che se l’Unione europea decidesse di rinunciare completamente al petrolio russo, sarebbe come se il salario di un lavoratore si riducesse del 40%. Un rischio recessivo imponente, dunque, come tale impossibile da sostenere, anche alla luce delle ripercussioni sociali.

Legata alla questione del petrolio russo c’è, poi, quella delle c.d. “rotte alternative”, nel senso che il petrolio anziché seguire le rotte ufficiali, viaggia attraverso stati che si offrono a metterlo in circolazione, incanalandolo su rotte secondarie, per poi farlo confluire, dopo una serie di percorsi “alternativi”, nuovamente nei circuiti ordinari. Tutto questo sfruttando accordi stipulati prima dell’invasione, che certi stati ritengono, per convenienza loro, di dover rispettare. Senza tralasciare, infine, il fenomeno dell’intermediazione offerta da alcune grandi compagnie petrolifere capaci di noleggiare grandi navi e tramite queste raggiungere qualsiasi meta rifornendo i clienti.

Di fronte a tutto questo, la reazione del governo ucraino è stata forte. Zelensky ha deplorato la strategia dei trucchi contabili e chiesto a Bruxelles di agire senza infingimenti, più in fretta possibile, e di deliberare oltre all’embargo totale anche un piano di sanzioni contro le petroliere. Questa esperienza ci insegna, perciò, che se l’Europa e il resto del mondo che si oppone all’invasione dell’Ucraina vogliono far cessare la guerra e ristabilire condizioni di libero mercato meno diseguali e distorsive possibile, occorre elaborare soluzioni politiche all’altezza di questa complessità, senza dimenticare che i forti ricavi provenienti dal petrolio e dal gas servono anche ad aumentare la spesa militare.