LA TESTIMONIANZA GIUDIZIARIA NELLE CULTURE PROCESSUALI MEDITERRANEE (E NON SOLO): PROFILI DI COMPARAZIONE

“Testimonianza” è un termine singolarmente suggestivo per l’operatore pratico del diritto, innanzitutto a partire dalla sua originaria matrice semantica. È tra i pochissimi sostantivi, nella lingua italiana, a valere sia in senso soggettivo sia in senso oggettivo. Indica, cioè a dire, chi rende la testimonianza, chi comunica un’informazione qualificata nel processo, ma anche l’insieme delle dichiarazioni e dei significati che sono riferiti e pronunciati.

Nella grande distinzione sussistente in ordine agli istituti e agli scopi dell’istruzione probatoria, va pure ricordato che la testimonianza è un “mezzo di prova”, non un “mezzo di ricerca della prova”. In se stessa, non è in senso astratto e universale già “prova” – essa si forma, fisiologicamente, solo in un contesto dibattimentale, salve eccezioni tassativamente previste e legittimate da peculiari circostanze e impellenze oggettive. E però della testimonianza il legislatore, tanto in ambito penale quanto in ambito civile, non fornisce nemmeno il carattere tecnico-strumentale associato ai mezzi di “ricerca” della prova medesima: non è un istituto per rinvenire (eventualmente e all’esito di accorgimenti necessari) ipotesi di prova da portare a giudizio, è essa stessa già contenitore dove possono trovarsi indicazioni della prova.

Quanto all’etimologia, la pista archeologica latino-occidentale sembra lineare: la testimonianza è ciò che dice il “teste”, terminologia peraltro ancora in uso, oltre che, appunto, marcatore etimologico del lemma. È il soggetto che interviene e riferisce davanti a un’autorità che interloquisce istituzionalmente con lui. È curioso come i principali sistemi giuridici del Mediterraneo (quelli arabo-islamici, quelli di derivazione romano-cristiana, quelli di nuovo conio e di influsso anglosassone successivi al 1989) prevedano, pur nella loro plastica irriducibilità, particolari disposizioni sulla capacità del testimone, ma è in fondo conseguenza della costruzione giuridica interculturale della testimonianza.

Le informazioni veicolabili dal teste sono così importanti che il teste deve saperne dire con specifica contezza e con una ancora più specifica integrità personale, tale da non riferire all’autorità o alla giuria informazioni parziarie e fittizie, orchestrate a nocumento del vero o in qualche modo comunque inesatte.

Più probante e impegnativa l’etimologia dei termini relativi alla condizione testimoniale nell’altra tradizione, quella greco-orientale – tuttavia in parte recepita dalla dogmatica ecclesiastica, non solo bizantina prima e ortodossa poi. Il martire è un peculiare tipo di testimone: chi testimonia la fede fino al sacrificio della vita. Anche questa interpretazione teologica della testimonianza e del martirio non è una esclusiva del diritto occidentale o delle istituzioni culturali derivanti dalla secolarizzazione del pensiero giuridico cristiano. Si consideri ad esempio l’attentatore suicida musulmano (shahid) che tuttavia non testimonia la fede col suo solo proprio sacrificio, ma si proietta a cagionare una lesione o, addirittura, una carica omicidiaria a danno di altri. Quello che è proclamato per la fede va peraltro in contraddizione con la fede stessa, visto che l’Islam proscrive (e non prescrive!) il suicidio, anche come strumento di aggressione contro gli infedeli: la morte del martire può essere effetto, mai causa efficiente.

La posizione simbolico-testimoniale del martire emerge qua e là anche nelle culture non teistiche non occidentali e non abramitiche. Non prendiamo in considerazione i kamikaze (gli attacchi suicidi dei piloti giapponesi) e però pure in quel caso c’è una forte carica assiologica immediatamente obbligante, o percepita come tale – kami è ciò che lo scintoismo associa alla divinità, kaze indica il vento in senso di spinta, soffio primigenio, moto d’attacco.

Ci sembra più vicino ai fini di questa riflessione il suicidio rituale del samurai giapponese (seppuku): un peculiare aspetto testimoniale ne giustifica, anzi, l’ontologia negativa. Quel rituale è successivo o alla sconfitta (si evita la pena capitale), o a una dichiarazione di lealtà (dopo la morte del proprio signore), o, ancora, a una negazione di giustizia (l’onta di un sopruso).

Quanto alla cultura europea del XX secolo, le strade del “martire” e del “testimone” si distanziano ulteriormente. Per strano che possa sembrare, il testimone processuale, quello che col suo dire concorreva all’accertamento della verità e alla formazione del prudente apprezzamento del giudice, diventa “silenzioso”: ci sono casi in cui un testimone può non intervenire o il giudice stesso ritenere il suo apporto irrilevante. È un testimone proceduralizzato, senza nessuna eccezionalità. Il martire, anche quando è muto e intenzionalmente repelle il linguaggio verbale, “parla rumorosamente”. Sono stati indifferentemente chiamati “testimoni della libertà” o “martiri laici”, ad esempio, tanto il militante cecoslovacco Ian Palach, che si diede fuoco contro il regime socialista del suo Paese, quanto l’irriducibile attivista repubblicano Bobby Sands, che si lasciò morire di fame per protestare contro l’improbabile e autoritaria soluzione della questione irlandese da parte del Regno Unito. Pensandoci bene, del resto, la scissione semantica tra il martire e il testimone, se guardata dal punto di vista delle appartenenze culturali e religiose, sembra più apparente che reale e di certo non ha a che fare col processo di secolarizzazione o con l’affermazione del principio di laicità. Ian Palach era un simpatizzante del mutualismo cristiano operaio – in Repubblica Ceca decisivo anche nella rivoluzione di velluto del 1989, in Polonia legato invece a fenomeni e ambienti più compositi o ambigui, come il sindacato Solidarnosc. E Bobby Sands, come la più parte dei militanti irlandesi e nord-irlandesi, muoveva da posizioni chiaramente antianglicane e antimonarchiche.

Questi elementi, peraltro, ci inducono a concluderne che esiste, almeno nell’evoluzione storico-giuridica dei rapporti interordinamentali, una alleanza incompresa tra la secolarizzazione (qui intesa come il processo di devoluzione delle istituzioni dalla sfera religiosa a quella statale) e il cristianesimo. La reiterata denominazione di “nuovi martiri”, così invocata, coerentemente per dimostrare la professione di fede fino al sacrificio della fede, a indicare le vittime delle persecuzioni anticristiane oggi in aumento nel pianeta, dimostra inequivocabilmente che la maggior parte di quelle persecuzioni avviene in ordinamenti e sistemi teocratici e antisecolari. Laddove non esiste il bigiurisdizionalismo – l’esistenza cioè di condotte valutate sul piano religioso e precettistico e di altre riguardanti la sfera della cittadinanza politica – è più facile che le minoranze religiose subiscano trattamenti deteriori rispetto ai portatori delle fedi e dei poteri tradizionali. Quei cristiani trucidati sono in un certo senso nuovi martiri e nuovi testimoni, ma il contenuto di una testimonianza, se autoritaria o antiautoritaria, non può essere visto con le sole lenti dell’appartenenza religiosa. Nell’Europa dell’Est, sconvolta da nuovi venti di guerra, il Patriarca ortodosso Kirill può promettere la salvezza eterna ai “martiri” dell’esercito russo, giovani arruolati per una guerra di aggressione che, nonostante la miopia geopolitica delle alleanze occidentali, non ha nulla di testimoniale sul piano della giustizia e della rivendicazione di libertà e diritti. Al tempo stesso, nella Turchia odierna, interessata a un confessionismo di ritorno che sta mettendo in parentesi il carattere laicista delle istituzioni forgiate alla caduta dell’Impero ottomano, a dare una testimonianza di giustizia (una volta di più: fino al sacrificio della vita!) è l’avvocatessa Ebru Timtik, anch’ella morta a seguito di uno sciopero della fame contro le politiche governative di contrasto all’associazionismo pluralista e democratico. La fede – nella religione quanto nel diritto – se non è martirio, tuttavia, non può mai pensarsi come sopruso e arbitrio contro le sensibilità del dissenso, dell’alternativa, della diversità.