I timbri della superficialità e dell’anatema, così in voga così apparentemente contrapposti così intrinsecamente simili, non ci appartengono. La lettura e il metro richiesti da un’analisi che voglia continuare a dirsi giuridicamente fondata non possono negare né le criticità emerse nella vita pubblica ucraina dal 2014 ad oggi, né la gravità degli atti di guerra successivi all’aggressione unilaterale aperta dal governo di Mosca. Oltretutto, molti asseriti opinionisti raffinati dei nostri talk h24 e sette giorni su sette risultano, non sapendolo o sapendolo benissimo, enormemente di cattivo gusto, perché pontificano con penna rossa e penna blu mentre ogni istante si giocano e si rischiano vite umane. Dobbiamo perciò provare a chiederci che cosa possa e debba essere fatto, quale ruolo si voglia giocare nel futuro, che conseguenze di sistema dobbiamo avere la maturità e la responsabilità di elaborare, anche a costo oggi di sembrare portatori anomali di visioni fuori moda. Se guardiamo ai voti deliberati nei consessi internazionali a partire da marzo ad oggi, in attuazione della politica delle “sanzioni”, dobbiamo ammettere che c’è una larghissima porzione di mondo globale che non si riconosce più nel sistema difensivo anglo-atlantico e che tuttavia ha vivo sdegno per i fatti ucraini e la politica russa. Questa sensazione appartiene, o sembra appartenere, anche a Pechino: non ha più bisogno di riconoscersi sotto (o contro) ombrelli protettivi, ma non mancano suoi distinguo, pur sin qui inefficaci, rispetto all’azione di Putin. Tutte strategie, si dirà, per far capire all’ambizioso partner che resta socio di minoranza. Secondo i critici, mosse per potere così creare un precedente e agire in libertà contro i dissidenti e le vertenze aperte nel Mare cinese. Più modestamente, chiosiamo senza pretese di saperne più del diavolo, ulteriori segnali che una guerra oggi non era nei piani, nelle speranze e nelle necessità di nessun popolo della terra. Da tempo si fa strada l’idea di un mondo che fuoriesce dalle categorie della Guerra fredda: l’economia lo ha dimostrato prima, quando si è cominciato a parlare dell’emergere dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica). I BRICS ovviamente sono molto tenuemente esistiti come realtà giuridico-istituzionale, dal momento che non agiscono nel quadro delle medesime organizzazioni e raramente hanno linee comuni determinanti. Si sono frastagliati, peraltro. In Russia Putin ha esasperato un clima “con me o contro di me”, che ha rafforzato le posizioni nazionalistiche anche nei partiti di opposizione. In Brasile la gestione Bolsonaro ha annientato aspettative di equità, progresso e redistribuzione (agendo contro l’ambiente, i diritti di minoranza, il sistema di sanità pubblica). In Cina il partito opera coprendo la non più occultabile polvere sotto il tappeto – Hong Kong, libertà sindacali, tutela della riservatezza, sistemi autoritari – ma può farlo in modo poco disturbato in quanto ormai alla guida di un’economia di statura gigantesca. Il Sudafrica, in modo interlocutorio, non sembra avere più lo stesso vento in poppa e in Africa stessa il suo contributo a fare uscire dallo sfruttamento e dalle guerre civili centinaia di milioni di persone è stato molto inferiore alle attese: i risultati stan lì a chiarirlo. Ci sembra che questo contesto dimostri il ritardo di pianificazione e strutturazione del federalismo europeo, ormai ventennale, e l’incapacità di far lievitare una politica mediterranea universale sui diritti umani, tale da aumentarne la tutela nei confini interni e proporsi fuori d’essi col proprio umile bagaglio di idealità, ricette, soluzioni operative. Non intendiamo affatto dire che l’Europa, in quanto nozione geopolitica e in quanto Unione Europea, sia responsabile della guerra: la guerra è di chi la fa armi in mano. Diciamo piuttosto che una diversa Unione Europea avrebbe avuto ben altra sostanza a scongiurare la guerra. Non per fare la zona cuscinetto tra Est ed Ovest (un ruolo che ha già avuto, anche nel periodo in cui si è creduta semplicemente Ovest), non per violare gli accordi internazionali nel sistema euro-atlantico della difesa e nemmeno però per divenirne il vassallo minore. L’Europa, quale realtà storico-istituzionale e giuridico-economica, avrebbe dovuto interloquire con quella insoddisfazione, che non vota più compatta nelle assemblee internazionali e che è tuttavia timorosa di andare al traino degli spiriti più brutali ed egoistici. A quel mondo – demograficamente più cospicuo dell’altro – non ha saputo dire molto negli ultimi decenni, anche perché troppo poco ha fatto per mantenere e migliorare la sua struttura interna. Superati i meccanismi decisionali, debole la regia comune (solo nel periodo pandemico e nello stanziamento straordinario quella cabina si è vista, ma bisognerà vedere gli Stati membri come proietteranno la pellicola: il film pare in Italia già visto), limitato l’intervento di coesione interculturale, simbolica, civile, geostrategica. Per questo molti dei conflitti bellici in atto oggi nel mondo, non solo quello che più comprensibilmente cattura le attenzioni comuni per le implicazioni culturali, geografiche, energetiche, di sistema, stanno in fondo lì a ricordarci che questo mondo ha disperatamente bisogno di Europa politica. Dove non c’è aggregazione di intenti e articolazione di prospettive, dove non c’è un motore federativo che viva da processo di integrazione e traduzione, ci sono le guerre. E non può esserci Europa politica senza una forte adesione e partecipazione attiva della sua area mediterranea. Se possiamo riscattare un’Europa che “vogliamo”, parte dalla capacità di pacificazione, dagli strumenti dello sviluppo con una carica di redistribuzione non ostile alle autonomie e anzi loro alleata, parte da Ventotene per arrivare al domani. Dove non c’è Europa politica sembra dover esserci guerra e non può esserci Europa politica senza Mediterraneo.
Domenico Bilotti