A proposito del volume Fratelli tutti? Credenti e non credenti in dialogo con Papa Francesco

a cura di Debora Tonelli, Castelvecchi, Roma, 2022.

di Salvatore Berlingò

Università per Stranieri “Dante Alighieri” di Reggio Calabria

1. Le vicende che caratterizzano la storia e la cultura della Calabria, possono rappresentare, nella buona e nella cattiva sorte, un paradigma per tutta l’area del Mediterraneo orientale e per tanto si comprende perché l’omonimo Laboratorio interculturale (LIME), presti una costante attenzione alle peculiarità proprie dei territori di alcune diocesi calabresi. Orbene, ad una di esse, precisamente all’Arcidiocesi di Rossano-Cariati, afferisce un insediamento la cui rilevanza culturale presenta specifici nessi con l’oggetto del libro che, anche per la sua attualità, si è scelto di prendere in esame: l’abbazia basiliana di Santa Maria del Pàtir o del Pàtire, detta Pathirion (dal greco: Patèr), è un complesso cenobitico italo-greco, in origine dedicato a Santa Maria Odigitra (ossia, la Madonna che ‘indica la strada’), ora rimesso in auge da ambiziosi progetti, che intendono perseguire la sua (ri)valorizzazione.

La promotrice di queste encomiabili iniziative, l’architetto Mariella Arcuri, ne illustra in modo accurato i vari aspetti all’interno di un volume – dato alle stampe sotto l’egida della collana Calabria Letteraria Editrice, per i tipi di Rubbettino, a Soveria Mannelli, nel 2021 – dal titolo: Il complesso monastico basiliano di Santa Maria del Pàtir. Con le ipotesi di ricostruzione del monastero e la restituzione grafica degli affreschi, cui senz’altro rinvio. Il rilievo storico-culturale del complesso monastico appena richiamato è, per altro, collegabile alle tematiche del volume che mi accingo a presentare per almeno due motivi.

In primo luogo, perché le vicende degli eremiti – o, per dirla con i termini dell’avvincente romanzo, Fadia, edito per Castelvecchi, a Roma, nel 2022, dal fascinoso medico/scrittore di Seminara, Santo Gioffré – le vicende di «quegli uomini pazzi che dimorano … [nel] buio e attraverso la preghiera continua e la mortificazione dei propri corpi, cercano la luce increata, la percezione stessa di Dio e della sua Grazia», sono alla base della fondazione di quel complesso. L’origine del cenobio è riconducibile, infatti, all’opera di Bartolomeo da Simeri, un eremita, appunto, denominato Trigono, perché si rinvengono tracce delle sue gesta anche in un’altra area della rugosa Calabria, una vallata, Trigona, nella contrada Medaloro di Sant’Eufemia d’Aspromonte. È quanto può desumersi dalla trama, benché incompiuta, delle ricerche di un autoctono estimatore di quei siti, purtroppo immaturamente scomparso, Diego Fedele, il cui manoscritto, La valle dei monaci di San Bartolomeo di Trigona. I Templari e Maria Maddalena, ho già altrove ricordato, essendomi stato consegnato in copia dall’Autore poco prima della sua improvvisa dipartita.  

In secondo luogo, la connessione di quel complesso cenobitico con la disamina del volume di che trattasi è da ravvisare nella circostanza che in quell’insediamento vennero a realizzarsi le condizioni per un’armoniosa sintesi e coesistenza fra la primigenia civiltà greco-bizantina e la posteriore cultura cattolico-latina, pur quando, sullo scorcio del primo millennio, sopravvenne la dominazione normanna. Si concretizzò, di fatto, in quella sede, il prototipo del rapporto interculturale ed interreligioso che il Magistero di Papa Francesco, con l’Enciclica Fratelli tutti, intende rimettere in auge, così da renderne universalmente apprezzabile e realmente condivisibile la perenne e, ai giorni nostri, peculiarmente coeva rilevanza.

2. Per altro, è lo stesso Pontefice – nell’ Omelia pronunciata sul Sagrato di Piazza San Pietro, prima di impartire la Benedizione Urbi et Orbi, venerdì 27 marzo 2020 – a richiamare le (pluriformi) radici mediterranee della nostra cultura e civiltà, osservando che la catastrofe pandemica ci ha indotto – per riferire alla lettera un brano del Suo discorso – nella tentazione di « “imballare” e dimenticare ciò che ha nutrito l’anima dei nostri popoli … le nostre radici … privandoci così dell’immunità necessaria per far fronte all’avversità» ed al pericolo di essere sedotti  (e omologati) dall’incantesimo delle infide sirene inneggianti alle libertà «mercatorie» d’oltre oceano. Ben a motivo il Papa avverte che l’indulgere a queste seduzioni comporta il rischio di far cadere nell’oblio il profondo (e “pluriverso”) senso dell’umano, condensatosi in varie epoche e molteplici modi, lungo le sponde del Mare Nostrum, il Mar Mediterraneo, non a caso, in tempi più consapevoli del loro consistere, denominato Mare amoroso da un poemetto del tredicesimo secolo, riprodotto nel Codice a penna n. 2908, della Biblioteca Riccardiana di Firenze.

«Ai nostri giorni – aveva già ammonito Francesco nel messaggio trasmesso il 23 febbraio del 2020, in occasione dell’evento Mediterraneo, frontiera di pace –l’importanza di tale area non è diminuita in seguito alle dinamiche determinate dalla globalizzazione; al contrario, quest’ultima ha accentuato il ruolo del Mediterraneo, quale crocevia di interessi e vicende significative dal punto di vista sociale, politico, religioso ed economico […] Si può dire che le sue dimensioni siano inversamente proporzionali alla sua grandezza, la quale porta a paragonarlo, più che a un oceano, a un lago, come già fece Giorgio La Pira. Definendolo “il grande lago di Tiberiade”, Egli suggerì un’analogia tra il tempo di Gesù e il nostro […]. Come Gesù operò in un contesto eterogeneo di culture e credenze – proseguiva il Papa -, così noi ci collochiamo in un quadro poliedrico e multiforme, lacerato da divisioni e disuguaglianze che ne aumentano l’instabilità. In questo epicentro di profonde linee di rottura e di conflitti economici, religiosi, confessionali e politici siamo chiamati ad offrire la nostra testimonianza di unità e di pace».

A meno che detto Mare non voglia continuare ad essere, sull’abbrivio di quanto denunciato di nuovo da Francesco, all’Angelus del 13 giugno 2021, il «cimitero più grande d’Europa», come purtroppo è avvenuto con la strage di migranti da ultimo consumatasi sulle spiagge del crotonese nella notte fra il 25 ed il 26 febbraio 2022!

3. Chiaramente un economista, Carlo Trigilia, nel suo recente saggio su La sfida delle disuguaglianze. Contro il declino della sinistra – qualche mese addietro edito a Bologna, dalla casa editrice il Mulino, la cui omonima Rivista, con l’intero numero 4 del 2022, si sofferma, in particolare, su L’Italia dei divari – evidenzia parecchi motivi che inducono a riflettere come, in tali contesti – se si vuole lenire la «collera dei poveri» evocata sempre da Giorgio La Pira in uno dei saggi della raccolta Il sentiero di Isaia. Scritti e discorsi (1965-1977), pubblicati per i tipi di Cultura editrice, a Firenze, nel 1978, e su cui non aveva mancato di soffermarsi Valerio Onida nella conferenza La Pira, i popoli, la pace, tenuta presso l’Aula Magna dell’Università di Firenze il 5 novembre 2007, consultabile nel sito astrid-online.it – occorra non limitarsi al rammarico per le morti una volta avvenute o al supporto della velleitaria tessitura di autonomie, più o meno differenziate, e nemmeno alla salvaguardia dei c. d. diritti civili, spesso declinati solo in astratto e in forme individualistiche.

Bisogna, anzi tutto, rimuovere le diseguaglianze ed asseverare i più inclusivi diritti sociali, ponendoli a fondamento concreto della vita quotidiana di tutti noi e, in specie, a sostegno dei soggetti, degli aggregati, dei popoli meno facoltosi e più reietti. E’, in altri termini, necessario provvedere con priorità alle genti dei “luoghi che non contano”, se si preferisce utilizzare l’espressione di uno scrittore di lingua inglese, Andrés Rodriguez-Pose, docente di geografia economica presso la London School of Economics and Political Science ed Autore del saggio The Revenge of the Places that don’t Matter (And what to do abaut it) [La rivincita dei luoghi che non contano. Cosa bisogna fare al riguardo], pubblicato nel 2018 sulla Rivista di quell’istituto, il Cambridge Journal of Regions, Economy and Society.

Al proposito, in maniera opportuna e tempestiva, nel volume in questa sede recensito, il contributo di Gianfranco Macrì (Presidente del Laboratorio Interculturale Mediterraneo Est: LIME, ricordato in premessa) pone in rilievo come l’Enciclica Fratelli tutti sia stata preceduta da due tappe, che hanno fatto capo a due Paesi situati nella regione mediterranea, rispettivamente: la Dichiarazione di Marrakech sui diritti delle minoranze religiose nel mondo islamico, del 26 gennaio 2016 e il Documento sulla fratellanza umana e la pace comune, frutto dell’incontro di Abu Dabi, avvenuto il 3 ottobre 2020, fra Papa Francesco e il Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb. Queste tappe hanno, inoltre, avuto un seguito, lo scorso novembre, nel Forum del Bahrein per il dialogo: Est ed Ovest per la coesistenza umana, con l’ulteriore pressante appello del Pontefice (che si può leggere nel n. 21 del 2022 della Rivista Il Regno-documenti, alle pagg. 650 ss.) volto a reclamare l’insorgere dello spirito di fraternità, alla cui fonte ristoratrice (e restauratrice di ogni alterato equilibrio) dovrebbe tornare ad abbeverarsi l’intero pianeta o “villaggio globale” (volendo rifarci alla calzante metafora introdotta per primo nel lessico corrente dal sociologo Marshall McLuhan).

4. Sempre nel volume qui recensito, Giovanni Lucchetti, con lo scritto intitolato Da Mosè ad Abraham Maimonide, ravvisa un’analogia fra l’incontro del Papa con l’Imam e la vicenda spirituale del figlio del più famoso Mosè Maimonide, Abraham. Costui – a detta dell’Autore – avrebbe attinto alla tradizione islamica Sufi per propiziare un superamento dei “muri” spesso eretti fra le differenti identità religiose, con le divaricazioni da essi prodotte e oggi accentuate dalla martellante azione dei media (di cui si occupano, per ultimi, in modo approfondito, gli Autori dell’opera collettanea Migrations/Mediations. Promoting Transcultural Dialogue through Media, Arts and Culture, a cura di Pierluigi Musarò, Nikos Papastergiadis, Laura Peja, Vita e Pensiero, Milano, 2022).

Risulta sorprendente, annota Lucchetti, che il modo di comportarsi dei Sufi, così come individuato da Abraham Maimonide, consista in atteggiamenti accostabili a quelli dei profeti biblici e – aggiungo io – degli eremiti protocristiani, in precedenza richiamati. Difatti, mediante il ritiro spirituale incentrato sul silenzio – il Chinmoku, direbbe l’Autore giapponese Shusaku Endo, che con questo termine designa (nel suo volume intitolato, appunto, Silenzio, tradotto in italiano presso la Coines Edizioni, a Roma, nel 1973) il vieppiù pregnante “silenzio di Dio” (cui rinvia, a sua volta, l’analitica ricerca di Francesco Zanella, Silenzio dell’uomo e silenzio di Dio, Paideia, Torino, 2022) – i Sufi, adottando il particolare stile di vita descritto da Maimonide figlio, nel contributo di cui sopra – vincevano «il sonno e la paura attraverso le veglie notturne». Lo stesso Maimonide aggiunge, inoltre, che «trascorrendo (e pregando per) tanto tempo in luoghi bui [essi: i Sufi] finivano per danneggiare la … facoltà visiva»; e tuttavia questo danno fisico procurava loro «lo sviluppo di una potente luce interiore (mistica) in grado di sostituire l’esperienza sensoriale della luce sulla retina». Per tanto, Abraham – come avverte Lucchetti – «era convinto che la pratica ebraica/sufi fosse in qualche misura requisito necessario per una nuova epoca spirituale».

Mi dilungo, con le referenze appena menzionate, e con quelle che riporterò di seguito, nell’enumerazione di una molteplice serie di contributi, non già per indulgere ad uno sfoggio erudito, bensì al fine di evidenziare la larga convergenza di dottrine che emblematicamente si accordano con il Magistero di Papa Francesco, secondo cui ogni steccato fra le diverse religioni e culture va divelto senza ulteriori indugi. Solo in tal modo, difatti, potrà evitarsi che le identità culturali e religiose alimentino cruenti conflitti, anziché rendersi protagoniste di un confronto dialogico e reciprocamente arricchente, come è auspicato, altresì, da un filosofo, Kwame Anthony Appiah, originario del Gana, uno dei tanti “luoghi che non contano”, ascrivibili alle periferie del mondo dal Papa predilette (si veda di Appiah il saggio: The lies that bind. Rethinking Identity. Creed, Country, Color, Class, Culture, Liveright Publishing Corporation, New York-London, 2018, alle pagg. 65 ss., 211 ss., in particolare 218 s.; ma, di seguito, si esprime in termini analoghi Pierre Gisel: Figlie e figli di chi? Le identità perdute, nella Rivista Il Regno-attualità, n. 22 del 2022, alle pagg. 727-734).

5. Sennonché, come denunzia ancora una volta il Pontefice nell’Enciclica Fratelli tutti, la storia non ci è stata maestra, per cui bellicosi rigurgiti tocca registrare anche in epoca contemporanea. Ciò induce il Papa a parlare di una «terza guerra mondiale a pezzi», anzi, «totale», nei termini di cui al Messaggio Urbi et Orbi del giorno della Natività 2022; e il medesimo rilievo porta noi a comprendere pienamente il punto interrogativo apposto nel titolo del libro in esame, che ci porta a riflettere: siamo davvero tutti fratelli?

Al riguardo, Francesco tiene a dire: «In quell’incontro fraterno, che ricordo con gioia, con il Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb, abbiamo fermamente dichiarato che le religioni non incitano mai alla guerra e non sollecitano sentimenti di odio, ostilità, estremismo, né invitano alla violenza o allo spargimento di sangue». Per inverso, spingono o, almeno (in forza della Dichiarazione sui valori umani comuni, siglata a conclusione del Forum per la promozione dei valori comuni tra i seguaci delle religioni, tenutosi a Riyadh, l’11 maggio 2022), dovrebbero spingere tutti i popoli ad intraprendere un comune cammino di pace, procedendo insieme lungo le strade del mondo non già come estranei avvolti nel mantello steso a coprire gli affari o interessi propri di ciascuno, bensì con l’atteggiamento tipico del buon samaritano, pronto ad assistere il viandante, preso di mira e percosso dai banditi, convertendolo da oggetto di “scarto”, per l’indifferenza diffusa tra i più, in soggetto meritevole di partecipi e compassionevoli cure.

Vale la pena riferire fedelmente i particolari narrati nel Vangelo, a proposito del modo di comportarsi del samaritano, che dagli ebrei osservanti era considerato un eterodosso, un non credente. Proprio questa persona, ritenuta poco affidabile ad avviso del comune sentire, nel soccorrere il viandante ferito e da tutti abbandonato, non solo «gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino, … [e] lo portò in un albergo», ma si fece carico di assicurare continuità alla propria azione. Ed infatti: «Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui, ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”».

 All’apologo evangelico si richiamano motivatamente molti passi dell’Enciclica Fratelli tutti, così come più d’uno dei contributi del volume che sto illustrando. Ed è significativo che, nella parte conclusiva del libro medesimo, a detta del filosofo, docente emerito dell’università di Torino, ma di padre calabrese, Gianni Vattimo – Lui pure eterodosso o, volendo usare altri termini, cristiano “diversamente credente” – si giunga a riconoscere, in qualche modo, che solo un’autorità religiosa, come il Papa, può far propria e propugnare l’idea di un “fratello universale”, il fratello di tutti noi.

6. Quest’idea risulta maturata ed espressa – lo ricorda lo stesso Papa – da Charles de Foucauld, una luminosa figura di santo missionario venuto a contatto con «gli ultimi, abbandonati nel profondo del deserto africano». I suoi scritti antologici, dal titolo Storia di un missionario controcorrente. Un santo con una missione speciale – scelti e introdotti nel 2022 da Francesco Marcelli per le stampe della Tab edizioni di Roma, con una Prefazione di Gaspare Mura – hanno, non a caso, profondamente affascinato alcuni noti cineasti contemporanei: Liliana Cavani, di cui è possibile leggere, nelle pagg. 133-136 del n. 5/2022 della Rivista Vita e Pensiero, il significativo contributo Da Charles de Foucauld a Francesco d’Assisi, o Gad Elmaleh, con l’intervista rilasciata ad Agnès Pinard Legry, consultabile sul sito Aleteia, in data 15 novembre 2022.

Sicché vorrei anch’io ribadire, utilizzando le parole del filosofo calabro/pedemontano prima menzionato, che «… solo una ricchezza spirituale può dar luogo a una trasformazione anche politica; senza quella, le trasformazioni non funzionano come probabilmente [invece] funzionano la produzione [industriale], l’economia, ecc.» (pag. 168 del libro di cui si discute).

Parrebbe, del resto, esprimere il medesimo concetto Jacques Ellul, provetto e, ad un tempo, fervido sociologo d’oltralpe, quando, nel saggio Recherches sur le Droit et l’Evangile (inCristianesimo, secolarizzazione e diritto moderno, a cura di Luigi Lombardi Vallauri e Gerhard Dilcher, Nomos-Giuffrè, Baden Baden-Milano, 1981, vol. I, pagg. 115-140), afferma che esclusivamente con l’apporto di un’autentica ed elevata spiritualità un corpo sociale può vivere e non soltanto funzionare. Condizione indispensabile perché ciò si verifichi è, d’altra parte, la disponibilità della politica a rimettere di continuo in discussione gli assetti societari via via conseguiti (nel senso auspicato, ad esempio, per la teoria generale del diritto da Angelo Falzea, a pag. 216 della voce Complessità giuridica, nell’Enciclopedia del diritto, Annali I, Giuffrè, Milano, 2007 e a pag. 8 della prolusione Etica e diritto, tenuta a Reggio Calabria, il 6 Marzo 2003, nell’Aula Magna della Facoltà di Architettura, Università degli Studi “Mediterranea”, consultabile in www.unirc.it), assecondando gli stimoli degli ordini normativi religiosi e spirituali. Essi, non essendo riducibili al sistema delle regole di uno Stato sovrano, risultano molto più sensibili della politica di quest’ultimo (da ripensare a fondo, sulla scorta dell’aggiornata analisi di Paolo Gerbaudo, Controllare e proteggere. Il ritorno dello Stato, Nottetempo, Milano, 2022) a fronte delle “attese della povera gente”, spesso richiamate dal già ricordato Giorgio La Pira (in specie nel saggio L’attesa della povera gente, per la prima volta comparso sulla Rivista Cronache sociali nel 1950 e successivamente pubblicato con i tipi della Libreria Editrice Fiorentina, a Firenze nel 1970).

Per sovvenire ai bisogni degli ultimi e dei diseredati, nella prospettiva di recente adottata da alcuni studiosi stranieri – come Stephanie L. Mudge (Leftism Reinvented. Western Parties from Socialism to Neoliberalism, Harvard University Press, Cambridge, 2018) e Neil Vallelly(Vite rubate. Dal sogno capitalista al futilitarismo, nella traduzione italiana delle Edizioni Atlantide, Roma, 2022) – o, ancora in Italia, pure da Gianfranco Pasquino (Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana, Utet, Torino, 2021), deve, senz’altro, procedersi nel senso di un perenne e continuo trascendimento, personale e comunitario, con il ricorso alla «pratica mediata dalla religione della società», cioè dal «potere spirituale che è efficace anche nelle società secolari al di fuori della sfera di influenza della Chiesa» (secondo quanto osservato da Paul M. Zulehner, nel capitolo introduttivo del volume Hoffnung für eine taumelnde Welt. Entwurf einer europäischen Pastoraltheologie, Schwabenverlag, Ostfildern, 2023, nella traduzione italiana, Il cristianesimo europeo sta morendo? della Rivista Il Regno-attualità, n. 2 del 2023, pag. 58)                  

7. Un altro famoso economista, Jeremy Rifkin (in L’età della resilienza. Ripensare l’esistenza in una Terra che si rinaturalizza, nella traduzione italiana della casa editrice Mondadori, Milano, 2022, alle pagg. 358-363), afferma: «Ognuno di noi è venuto a conoscenza della propria esistenza facendo esperienza dell’altro … I nostri neuro-circuiti empatici ci spingono di continuo a trascendere noi stessi, a fare esperienza della vita, e a servirci di tale esperienza per stabilire connessioni e adattarci al mondo che ci circonda».

Per vero, questo noto teorico statunitense dell’economia sociale giunge ad asserire che «nessun essere umano è un’isola autosufficiente» soprattutto pressato dagli odierni fattori contingenti del cambiamento climatico e delle pandemie globali; là dove, in base all’intuizione già per tempo percepita ed espressa da un sensibile sacerdote, avvertito ed ispirato filosofo del diritto, il reggino Domenico Farias, il trascendimento, che auspica lo studioso nord-americano, è possibile, più in generale e nella sua più genuina caratura, solo a patto di prendere le mosse dall’«alto» di una «fraternità responsabile» e non già dal basso di una egoistica autodeterminazione (si veda quanto affermato da Domenico Farias, in L’ermeneutica dell’ovvio. Studi sull’esplicitazione dei principi più evidenti, I, Giuffrè, Milano, 1990, alla pag. 151).

Nella fraternità, cui Farias allude, è dato ravvisare, oltre ogni transeunte congiuntura, una perenne e superiore ascendenza, in tutto risalente alla paternità (patèr/pathirion!) divina, ovvero riferibile – volendo collocarsi in una prospettiva diversa da quella delle religioni del Libro – all’istanza che convoca “sotto il cielo” ogni umana persona, perché in ciascuno sia riconosciuto ed apprezzato l’altro da sé o l’Altro [che è] in sé, nell’ambito di una circolare economia delle differenze, comunque sia, fraterne (rinvio a quanto da me scritto in Le libertà di religione e di convinzione ed il ruolo della laicità negli ordinamenti democratici coevi, nel volume di Salvatore Berlingò e Giuseppe Casuscelli, Diritto ecclesiastico italiano. I fondamenti. Diritto e religione nell’ordinamento e nella società d’oggi, Giappichelli, Torino, 2020, 294 e nel saggio, Sul libro I: delle persone e della famiglia, al par. 3, in corso di pubblicazione sulla Rivista Il diritto ecclesiastico).

Dovrebbe, in tale contesto, darsi, in vero, come ormai acquisita la consapevolezza che l’umanità, pur con tutti i suoi innegabili ed ineliminabili divari, dispone di un’unica barca se vuole trarsi in salvo: la fiducia nel Dio sofferente che, con il Suo amore, compatisce e induce a compatire la totalità del genere umano, esigendo che gli sia resa giustizia per il tramite dell’adempimento dei doveri prospettati dalla (cristiana) carità, secondo l’articolazione per ultimo indagata, nel contesto della dottrina ispirata al tomismo, da Santiago Vigo Ferrera, nel denso volume «Apud nos dicitur aequitas». L’equità quale giustizia nella tradizione giuridica realista, edito con i tipi di Giuffrè, a Milano, nel 2023.

Certo, nell’assolvere tali doveri, «occorre [aver] coraggio, occorre saper patire», come ha intuito, tempo addietro, proprio nel solco tracciato da un movimento d’ispirazione cristiana, Chiara Lubich, rimarcando che se gli «uomini accettassero la sofferenza per amore, la sofferenza che richiede l’amore, essa potrebbe diventare la più potente arma per donare all’umanità la sua più alta dignità: quella di sentirsi non tanto un insieme di popoli l’uno accanto all’altro, spesso in lotta fra loro, ma un solo popolo», unito dallo spirito di fraternità e di pace, propiziato, insieme con la fede, da una giustizia divinamente orientata (rimando sul punto, evitando di ripetermi, ad un altro mio contributo, Chiara Lubich e la giustizia divina, consultabile nel sito web che fa capo al Centro Chiara Lubich).